La comunità al centro dell'integrazione

FRA NOI SECONDA EDIZIONE  è un progetto nazionale  finanziato dal Ministero degli Interni con il Fondo Asilo Migrazione e Integrazione (FAMI) che punta ad integrare stabilmente persone titolari di protezione internazionale nelle comunità locali. 

Questa seconda edizione dopo l’esperienza maturata nel 2018 con il Consorzio “Farsi Prossimo” come capofila, è ora guidata dal Consorzio Communitas e coinvolge ancora una ampia rete di partner. Il Progetto ha avuto inizio a luglio del 2020 e si concluderà a dicembre del 2022.  L’obiettivo è quello di implementare tutti gli strumenti e le strategie possibili per un nuovo sistema di accoglienza e inclusione dei migranti in Italia.

Nel video il racconto della prima edizione del FRA NOI 

 

 

 

Il Consorzio Communitas

L'ente capofila del progetto è il Consorzio Communitas, una rete Non Profit formata da 23 realtà locali distribuite su tutto il territorio nazionale. Dal 2009 Communitas opera in stretta collaborazione con la Caritas Italiana e le Caritas Diocesane occupandosi di accogliere, assistere e accompagnare in percorsi di integrazione sociale persone vulnerabili e migranti. I progetti avviati in collaborazione con enti nazionali ed internazionali hanno permesso di conoscere i movimenti migratori e sviluppare buone pratiche di accoglienza.

La seconda edizione

 

Questa nuova edizione sarà importante per implementare un sistema multidimensionale di intervento attraverso azioni specifiche e locali di inserimento socio culturale, lavorativo e abitativo e azioni nazionali e trasversali di sistema. Un sistema che può contare su una rete diffusa e capillare e sulla costruzione di accordi operativi con i servizi territoriali, il mondo aziendale e la società civile, perché FRA NOI non è solo il sostegno ai singoli percorsi di autonomia, ma un insieme di interventi che coinvolgono la COMUNITÀ’. 

L’inclusione pensata dal “Fra Noi” va ad intervenire nel momento in cui il titolare di protezione internazionale esce dal sistema di accoglienza e si trova a dover “entrare” nella comunità locali.

I percorsi di AUTONOMIA realizzati hanno l’obiettivo di rendere le persone protagoniste delle proprie scelte, puntando sulle loro risorse e capacità.

Scarica la presentazione della Seconda Edizione del progetto FRA NOI

 

 

A chi ci rivolgiamo

Fra noi “seconda edizione” punta a coinvolgere 450 migranti titolari di protezione internazionale che abbiano portato a termine, da non oltre 18 mesi, percorsi di accoglienza presso progetti SAI, CAS ed altri circuiti di accoglienza, quali, in particolare, i Corridoi Umanitari.

Non solo. Il Progetto è rivolto alle comunità locali, che dall’incontro e dall’integrazione dei migranti possono avere un arricchimento culturale ed economico

Alle aziende, che hanno la possibilità di assumere persone ricche di competenze, portatrici di nuovi stimoli per il team e soprattutto attivatrici di una rinnovata motivazione al lavoro.

Alle famiglie che possono accogliere in casa loro persone e nuclei familiari selezionati dal progetto, trasmettendo alle comunità locali e alle nuove generazioni un'idea nuova di accoglienza e di immigrazione. Non solo, le famiglie possono diventare un punto di riferimento per i migranti non solo attraverso l’accoglienza, ma diventando parte alla rete di inclusione dei migranti. Un ruolo di guida che può aiutare tanti uomini e donne a sentirsi meno soli in un Paese che non conoscono. 

Ai proprietari di case e alle agenzie immobiliari che possono contribuire ad abbattere i pregiudizi negativi sui migranti diventando protagonisti di esperienze di integrazione abitativa di successo. Da queste buone pratiche può nascere un nuovo mercato per il settore immobiliare, formato da migranti divenuti cittadini attivi della comunità. 

 

LUOGHI E NON LUOGHI, PERSONE E NON PERSONE. DEI MIGRANTI, DELLA SOFFERENZA E DELLA CURA

 

LUOGHI E NON LUOGHI, PERSONE E NON PERSONE. DEI MIGRANTI, DELLA SOFFERENZA E DELLA CURA: Riflessioni a margine del Seminario sulla vulnerabilità psicosociale dei migranti nel sistema di accoglienza.

Novembre 2018
A cura di IPRS Istituto per le ricerche sociali

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Il presente documento è il risultato di un’attività svolta nell’ambito del progetto FRA NOI, progetto finanziato dal FAMI (Fondo Asilo Migrazione e Integrazione 2014-2020) e realizzato sotto la guida del Consorzio Farsi Prossimo in collaborazione con 47 partner di cui 14 Comuni, 1 Consorzio Intercomunale, 30 Enti di Terzo Settore, 2 Enti di Ricerca e Monitoraggio, ossia l’Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali e il Centro Studi Medì.  

Il progetto Fra Noi, progetto di “Potenziamento del sistema di 1° e 2° accoglienza-Completamento del percorso di autonomia dei titolari di protezione internazionale, intrapreso nel circuito di accoglienza SPRAR, attraverso la definizione e realizzazione di un piano individuale che preveda interventi mirati di inserimento socio-economico”, ha previsto la creazione di una rete nazionale a sostegno dei percorsi di autonomia dei Titolari di Protezione Internazionale consentendo la condivisione tra diversi territori di risorse e opportunità per i destinatari, così da incrementare il successo dei percorsi di integrazione dei singoli. Il progetto FRA NOI sta sostenendo percorsi di sostegno all’autonomia in 10 regioni italiane, e la partnership, in ciascun territorio, è sia pubblica (presenza di almeno un ente locale) sia privata.  

Al primo seminario dedicato al tema del benessere psicosociale dei migranti accolti nelle strutture di accoglienza, organizzato presso l’Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali il giorno 31 ottobre 2018, hanno partecipato:

Anna Maria Petta (Associazione Crossing Dialogues), Monica Serrano (Progetto Kairos/Coop. Aelle Il Punto), Luciano Rondine (Coop. Aelle Il Punto), Christian Valentino (Consozio Matrix Cooperativa Sociale), Luca Peluso(Associazione culturale Acuarinto), Giuseppe Inneo (ASL Roma 6), Giuseppina Carreca (ASL Latina), Giancarlo Santone (Asl Roma 1- Samifo), Marco D'Alema (ASL Roma 6), Arduini Laura (Casa della Carità-Milano), Stefano Bianchi (Casa della Carità-Milano), Maria Paola Lanti (Etna_Progetto Etnopsicologia Analitica),  Giovanna Doria (ASL Salerno ), Giovanna Storti (ASL Salerno), Irene Pacifico (Fondazione Santa Lucia), Francesca Assogna (Fondazione Santa Lucia), Fabrizio Piras (Fondazione Santa Lucia), Federico Suprani  (Università di Bologna), Filippo Gnolfo (Asl Roma 1), Mariangela La Torre (Asl Roma 1), Giuseppe Rievolo (Asl Roma 1), Cristina De Luca (IPRS),  Stefania Tonetti (Asl Roma 1), Diego Avanzato (Associazione culturale Acuarinto), Greta Grossi (Associazione culturale Acuarinto), Giuseppe Filotico (Consorzio Comunità Brianza), Giulia Chiacchella (Medu Psychè),
Lucia Maulucci (Medu Psychè), Maurizio Bacigalupi (Centro Astalli), Maria Chiara Maestrini (Caritas Roma), Raffaele Bracalenti (IPRS), Ettore Tavoletta (IPRS), Catia Santonico (IPRS),  Moreno Benini (IPRS),  Vanja Maria Katarina Stenius (IPRS), Chiara Schiavitelli (IPRS) Chiara Tommasini (IPRS), Fabiana Musicco (IPRS - Refugees Welcome), Cristina Tomaino (Etna_Progetto Etnopsicologia Analitica - Tirocinante IPRS).  

LUOGHI E NON LUOGHI, PERSONE E NON PERSONE. DEI MIGRANTI, DELLA SOFFERENZA E DELLA CURA: Riflessioni a margine del Seminario sulla vulnerabilità psicosociale dei migranti nel sistema di accoglienza.

“…Il “ritorno a casa” dell’etnopsichiatria è imposto dunque in primo luogo dalla necessità di misurarsi con i problemi della cura e dell’assistenza psichiatrica non più nelle colonie o all’interno dei programmi sanitari e umanitari in paesi in via di sviluppo ma qui, all’interno delle nostre società, dove l’accoglienza e ’integrazione di rifugiati e immigrati rivelano difficoltà, ombre e contraddizioni indubbiamente maggiori di quanto non accada nel campo della medicina generale…”  
Beneduce, R., Breve dizionario di etnopsichiatria, Carocci Editore, Roma 2008, pp.5-18).


Introduzione

Nell’ambito di specifiche attività svolte relativamente al tema della vulnerabilità psicosociale dei migrati accolti nel sistema di accoglienza, il nostro Istituto ha da tempo avviato una prima analisi a livello nazionale in merito alle criticità che si presentato nella presa in carico dei bisogni di salute della popolazione migrante ospite nei centri di accoglienza italiani. Da tale analisi sono emersi elementi di preoccupazione. Con riferimento specifico alla salute mentale, i numeri confermano una percentuale oscillante tra il 5% ed il 25% di migranti che, in tali contesti, manifesta l’esigenza di una presa in carico psicologica o psichiatrica che non trova adeguata risposta.

 Le  preoccupazioni  connesse  a  questo  primo dato hanno  sollecitato  la promozione di un confronto mirato con operatori del sistema di accoglienza e operatori della salute al fine di esplorare congiuntamente le modalità più idonee di gestione e di intervento a tutela della salute mentale dei soggetti presenti nel sistema di accoglienza.

La riflessione sviluppatasi nell’ambito del seminario dedicato al tema del benessere psicosociale dei migranti accolti nelle strutture di accoglienza, ha consentito, pur nella brevità dei tempi, di far emergere punti di vista e sensibilità diverse.


E’ mancata una governance della tutela della salute psichica?


Una prima pista di lavoro, proposta dal nostro Istituto, ha segnalato la mancanza di un disegno unitario capace di dare risposta a ciò che, a nostro avviso, appare come una vera e propria emergenza sanitaria. L’arrivo di un consistente numero di migranti, con storie migratorie costellate da molteplici rischi per la salute mentale, e che permangono a lungo nelle strutture  d’accoglienza, in un sistema sociale e di vita che potremmo dire corre parallelo a quello della società ospite e che costituisce un vero e proprio tempo di sospensione dell’esistenza, e che contestualmente  necessita un lavoro di ridefinizione del proprio progetto di vita e di forzato e rapido apprendimento di una molteplicità di codici sociali, avrebbe dovuto indurre una reazione del sistema di cura capace di guardare oltre i rischi infettivologi e le garanzie dell’assistenza allo sbarco. Il sistema sanitario, e in particolare i servizi psichiatrici, avrebbero dovuto, a nostro avviso, cogliere con immediatezza che questo portato di sofferenza rendeva indispensabile una riflessione sul ruolo che il sistema di cura avrebbe dovuto svolgere per garantire la tutela della salute psichica e intervenire per prevenire il consolidarsi e il presentarsi di una patologia franca con i suoi effetti devastanti, soprattutto in soggetti privi di ogni rete di sostegno sociale.  

Ad oggi, ed ormai sono passati non pochi anni, la definizione di prassi capaci di garantire un’adeguata presa in carico dei bisogni psicologici di questi migranti è stata lasciata  all’iniziativa dei diversi territori.
 E’  del  tutto  evidente che gli  attori principalmente coinvolti sono i gestori delle strutture di accoglienza e i responsabili delle aziende sanitarie locali e in particolare dei servizi psichiatri territoriali. I gestori delle strutture di accoglienza, con ampie differenziazioni tra Sprar e CAS, hanno messo in campo azioni e hanno trovato strade diverse, anche a ragione delle risorse proprie e dei territori, costruendo rapporti di collaborazione, talvolta, con Centri specialistici etnopischiatrici, in altri casi con qualche realtà privata più sensibile, oppure facendo riferimento alle strutture territoriali di base. Tuttavia, in questi casi sono in genere assenti protocolli per l’invio o per la gestione congiunta dei casi. Non sono poi infrequenti problemi legati a fattori burocratici, a ritardi nelle risposte per carenza di personale o per un certo disorientamento degli operatori che non si sentono a proprio agio nella presa in carico e nella diagnosi di persone con background culturali molto diversi, e con scarsa competenza linguistica.  

Possiamo dire che le testimonianze degli operatori del sistema dell’accoglienza convergono nel segnalare la grande fatica nel trovare adeguato sostegno per una presa in carico terapeutica dei migranti con sofferenza psichiatrica franca e la sensazione di non poter sostenere la presenza di questi soggetti nelle strutture. Parliamo, in questi casi, della gestione di una patologia psichiatrica manifesta, mentre non si è affrontato il tema dell’eventuale emersione/prevenzione di forme subcliniche, così da evitare il prodursi di episodi di acuzie il cui esito è molto spesso la cronicizzazione, cui consegue a sua volta un grande rischio di marginalità sociale estrema. Anche la riflessione sul funzionamento delle strutture  di accoglienza  come  luoghi  di capacitazione  e promozione  del  benessere  psicosociale  è  lasciata  totalmente  agli  operatori dell’accoglienza.

 Sul fronte dei servizi psichiatrici territoriali del sistema sanitario nazionale, vi sono certamente servizi che si sono attrezzati a ricevere pazienti provenienti dalle strutture di accoglienza, e in qualche caso si registra anche la definizione di prassi operative per la definizione di una sorta di alleanza terapeutica; ma nella maggioranza dei casi i servizi si descrivono e si percepiscono più come ricettori di pazienti inviati dal sistema  dell’accoglienza che come partner territoriali  del  sistema medesimo.
              
L’attenzione degli operatori è per lo più concentrata sulla fatica di gestire le acuzie; sulle difficoltà che si pongono al momento delle dimissioni poiché, data in larga misura l’assenza totale di un lavoro di rete e di una consuetudine di rapporto con le strutture di accoglienza, diviene difficile sapere dove inviare il paziente superata la fase di scompenso.  

 Un’altra difficoltà emersa nel seminario è quella relativa ai soggetti ormai in condizione di marginalità sociale estrema poiché fuoriusciti, anche a ragione della patologia psichiatrica dal sistema dell’accoglienza. Costoro costituiscono veri e propri drop out. E’ anche interessante il rilievo che accanto a questi ultimi vi siano anche soggetti in cui la patologia si sviluppa proprio a ragione della condizione di homeless. Come si è detto, manca, in generale la percezione di essere parte del sistema di accoglienza né ci si interroga sul ruolo di profilassi che il sistema sanitario nazionale dovrebbe/potrebbe svolgere, sia lavorando in rete con il sistema dell’accoglienza, ovvero realizzando un’attenta azione di screening per l’emersione delle condizioni sub-cliniche, sia concorrendo alla definizione di modalità di funzionamento delle strutture di accoglienza e alle prasi di lavoro psicosociale che ci si aspetta queste strutture debbano porre in essere.

Del resto, come detto, non siamo al momento giunti a conoscenza di direttive regionali o aziendali precise: al più esistono progetti regionali a valere su Fondi Fami destinati ad azioni promosse da Aziende sanitare Locali, anche a valenza regionale, che spesso includono tra le linee di azione anche la dimensione psichiatrica .  [Nel 2016 su 12 progetti finanziati dal Ministero dell’Interno relativamente alla linea di intervento riguardante la tutela della salute dei richiedenti protezione internazionale (ON 1 - Accoglienza/Asilo - lett. c - Potenziamento del sistema di 1° e 2° accoglienza - Tutela della salute), la metà riguardava in particolare progetti aventi ad oggetto esclusivamente la salute mentale; nel 2018, tale specificità invece riguarda 7 progettualità su un totale complessivo di 18 soggette a finanziamento.]

Il significato sintomatico dell’assenza di linee guida nazionali è, a nostro avviso, reso ancor più significativo dal fatto che il Ministero della Salute ha ritenuto di dover invece – e per certi versi, ovviamente, in maniera meritoria – emanare un documento: “Linee guida per la programmazione degli interventi di assistenza e riabilitazione nonché per il trattamento dei disturbi psichici dei titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale” (marzo 2017), che richiama l’attenzione sulla necessità di dare adeguata protezione e garantire trattamento ai soggetti vittima di torture.
Colpisce, così, che non si sia ritenuto opportuno richiamare le strutture sanitarie ad analoga responsabilità nei confronti più in generale ai bisogni di tutela della salute mentale della popolazione richiedente asilo o con status di rifugiato, proprio per le considerazioni più sopra sviluppate.

Il  rischio  che  si  configura  è  quello  di giustificare un  atteggiamento  di  scarsa responsabilità nei confronti delle persone presenti nei centri di accoglienza, favorendo atti di indirizzo  come quello di una recentissima delibera della Regione Lazio contenente "Indicazioni e procedure per l'accoglienza e la tutela sanitaria dei richiedenti protezione internazionale"[Delibera N°590 della Regione Lazio del 16/10/2018]  : questa delibera introduce sì il tema della salute mentale, ma facendo  riferimento esclusivamente a soggetti vittime di tortura, proprio richiamando le linee guida ministeriali.

A nostro parere, ciò conferma la scotomizzazione del problema posto dalla grande maggioranza dei migranti, i quali, pur avendo subito ogni genere di violenza,
non sono tecnicamente vittime di tortura. Qualora si volesse invece ritenere, e non è questo il caso dei due documenti sopra ricordati, che, proprio a ragione del carico di violenze subite, quelle indicazioni dovessero essere riferite a tutti i soggetti ospitati nelle strutture di accoglienza, ne deriverebbe, a nostro avviso, comunque, un grave fraintendimento clinico e diagnostico, poiché si rischierebbe di scotomizzare una grande quantità di sofferenza psicologica non necessariamente ascrivibile alle violenze subite, e, ovviamente, ciononostante meritevole del massimo livello di attenzione.

Alterità, sofferenza sociale e agire psichiatrico

Un vertice di osservazione diverso è quello che pone al centro il rapporto con l’alterità dei migranti in genere e di questi migranti in particolare e pone questa alterità in relazione al ruolo che il sistema di cura in generale e quello psichiatrico in particolare si trova o potrebbe trovarsi ad avere. In sostanza, vi è qui un sforzo di problematizzare la sofferenza delle persone migranti ed il nostro modo di interpretarla, e di conseguenza di sviluppare una coerente riflessione su quali possano essere le risposte più idonee.
Non è affatto banale o retorico chiedersi, ad esempio, quanto la malattia non sia anche e soprattutto il frutto del sistema stesso di accoglienza (non nel senso o non soltanto almeno nel senso delle strutture, ma piuttosto del sistema nel suo complesso), proprio per il suo porsi come tempo sospeso, luogo altro, anche fisicamente estraneo agli spazi della vita vissuta e non sospesa, e che quindi la risposta non possa e non debba essere solo psichiatrica ma più complessivamente sociale. Comunque, anche laddove la risposta debba e possa essere psichiatrica, è forse giusto segnalare come si debba fare attenzione a non psichiatrizzare ogni tipo di disagio, ovvero limitarsi a offrire una risposta che si riduca al massimo alla prescrizione di un qualche farmaco.

In sostanza, seppur in maniera non netta si legge il timore che la psichiatria possa/debba svolgere un ruolo di controllo sociale, psichiatrizzando un disagio che non è malattia ma sofferenza sociale che meriterebbe risposte diverse (casa, lavoro, integrazione sociale); ma anche contestualmente il timore che la psichiatria patologizzi la diversità culturale e sociale che non comprende; e infine, che un disagio sociale diffuso ingolfi le strutture psichiatriche che non paiono essere i luoghi deputati di presa in carico di tali sofferenze.  
Come si vede, si tratta di istanze diverse, tutte però che interrogano l’agire psichiatrico e i dispostivi di cura dal proprio interno. Se, come a noi pare, questi interrogativi hanno sia grande rilevanza teorico/clinica sia grande rilevanza etica, appare del tutto sorprendente che tutto questo non abbia generato maggiore condivisa riflessione.

I luoghi della cura

Una prospettiva  ancora  diversa  è quella  che  si interroga  sui  luoghi dell’accoglienza e sui luoghi di cura: si potrebbe dire che se c’è un problema posto dal cosa curare, cui corrisponde il quesito su come curare, si dà anche la domanda del dove curare.   

 L’accoglienza   in   grandi   strutture   pone   sfide   terapeutiche   diverse dall’accoglienza in strutture piccole o in case famiglia, o, ancora, in strutture per vulnerabili. Certamente si ha condivisa percezione che le strutture per soggetti vulnerabili, quando per vulnerabili si intenda soggetti con sofferenza psichiatrica significativa, costituiscano una soluzione assai problematica: la stessa natura di tali strutture non è chiara, poiché non è chiaro quanto esse debbano essere intese come strutture residenziali psichiatriche.

 E’ del tutto evidente che la scelta di trattamenti residenziali – con il rischio che assumano un profilo custodialistico - contrasta in maniera netta con l’impianto del sistema psichiatrico voluto dalla legge Basaglia, ma a parte questo comunque significativo aspetto, e a parte la difficoltà di cogliere la prospettiva terapeutica in cui tali strutture si pongono, appare chiaro che in assenza di un adeguato lavoro di prevenzione e presa in carico il numero dei cosiddetti vulnerabili rischia di aumentare a dismisura rendendo sempre insufficiente il numero di posti ad essi dedicati.  

L’apertura di strutture per vulnerabili ha, come spesso accade, dato risposta all’emergenza posta da presentarsi delle acuzie nelle strutture di accoglienza, ma ha lasciato aperto il problema del lavoro nei luoghi e con gli operatori dell’accoglienza. Tale riflessione è stata ripresa nel corso del seminario,  proprio da parte degli operatori dell’accoglienza, i quali hanno segnalato la necessità che le strutture debbano farsi flessibili, ovvero debbano costruire luoghi più adatti a favorire processi di cura,  per consentire  ai dispostivi terapeutici  di  funzionare;  tale  riflessione  è  certamente interessante, poiché in qualche modo tematizza la necessità dei sistemi di accoglienza di farsi capaci di promuovere il benessere psicosociale dei migranti, e quindi spinge la riflessione sulle pratiche del lavoro di accoglienza; e tuttavia si potrebbe anche ribaltare l’onere della responsabilità, e chiedere alla cura, ovvero ai suoi dispostivi, di farsi flessibili e sapersi adattare ai diversi contesti di accoglienza. Ciò che appare, però, sorprendente  è  che  questo  interrogativo  sui  luoghi  della  cura  e  del  curare  e sull’inevitabile intrecciarsi dei luoghi e dei dispostivi di cura, sia posto dagli operatori dell’accoglienza che costituiscono certamente uno dei poli, ma non sia posto, almeno ci pare, dagli operatori della cura, che rimangono indubbiamente detentori dei dispositivi di cura. Si ha, di nuovo, l’impressione che il sistema dell’accoglienza, o almeno una sua parte più avanzata, anche a ragione del quotidiano cimentarsi con i problemi posti dagli ospiti delle strutture, si interroghi sul proprio operare e si ponga in modo molto più dialogico di quanto non abbia fatto il sistema sanitario e in particolare i sevizi psichiatrici territoriali.  

 In un certo senso, potremmo dire, che gli operatori dei servizi psichiatrici mostrano, a nostro avviso, una grande difficoltà a uscire dalla routine e da modalità operative consolidate, anche a ragione di un senso di stanchezza per il continuo ridursi delle risorse economiche e professionali. Così, neanche una sfida drammatica e complessa come quella delle migrazioni forzate è riuscita a spingere il sistema di cura a ripensarsi e a rimodulare strategie di lavoro. Un tentativo, forse, di riflessione in questa direzione, ovvero su come i dispositivi di cura debbano farsi flessibili e mutevoli, sapendo anche adattarsi a contesti di vita diversi, è emerso nel caso della marginalità estrema che indubbiamente rende ineludibile il problema del dove, e di conseguenza del cosa e del come. In questo caso, si sono registrate tanto iniziative che hanno cercato di creare luoghi di cura in contesti non di cura (ad esempio presso stazioni ferroviarie), o anche la costruzione di luoghi comunitari dedicati alla marginalità sociale in cui è forte anche la sofferenza psichiatrica. 

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